I latini solevano dire “nomen omen”, “un nome un destino”, perché erano convinti che in qualche modo il destino delle persone fosse inscritto nel loro nome. Lo sa bene Eleonora Selmi, l’operatrice umanitaria di Medici Senza Frontiere che conosceremo tra poco.
La luce (in arabo النور, “nūr”, da cui il nome Eleonora) ha sempre fatto parte del suo destino, doveva solo imparare a portarla fuori. Letteralmente.
Eleonora è ostetrica da dieci anni, si è laureata a Catania ed ha fatto dell’ESTOTE PARATI il proprio stile di vita.
Che impatto ha avuto la tua esperienza in azzurro sulla tua vita?
Nel 2011, come capo-fuoco, ho accompagnato il mio Clan in Africa, per una route di servizio in Tanzania. Frequentavo il mio ultimo anno di università ed ero molto concentrata sulle ultime materie. Ostetricia è un concentrato di studi in tre anni, teoria e pratica, con turni notturni; in più ero molto competitiva perché non volevo perdere tempo e diventare ostetrica era il mio desiderio sin da bambina. […] Siamo stati per due settimane nei pressi di una chiesa abbandonata, in mezzo alla savana, gestita da un sacerdote siciliano che stava avviando lì la sua seconda missione. Le giornate erano semplici, scorrevano secondo ritmi naturali e lenti, un po’ come in tutta la savana, ed erano scandite dalla luce del sole. Durante questa esperienza non so cosa sia successo, ma qualcosa dentro di me è cambiato. Forse, più che altro, sono stata obbligata a fermarmi e chiedermi: “Dove vuoi andare, cosa vuoi fare della tua vita?”. Don Mario, il nostro AE, continuava a ripetermi di lasciar fluire (lacrime, emozioni…) così, tornata sconvolta e completamente diversa in Sicilia, ho cominciato a mettere in discussione tutte le mie certezze e a capire che sì, volevo fare l’ostetrica, ma in un contesto difficile, di sfida. Dopo la laurea ed un vero e proprio travaglio (è il caso di dirlo!) ho cercato in tutti i modi e in tutti i luoghi, dal Trentino all’Inghilterra, di crescere professionalmente e fare quanta più esperienza possibile. Specialmente in sala parto. Tutto in funzione di un obiettivo che avevo già da tempo messo a fuoco e che nel 2017 avrei raggiunto: presentare l’application ed entrare a far parte del pool di Medici Senza Frontiere.
Come presenteresti Medici Senza Frontiere ai lettori di Sicilia scout? C'è qualcosa di simile ad un motto, che racchiuda i valori e gli obiettivi di questa organizzazione?
Medici senza frontiere è un’organizzazione non governativa, quindi non finanziata da governi ma dalle donazioni di singoli o gruppi privati. Quest’anno l’organizzazione compie cinquant’anni. È nata nel 1971 da un gruppo di medici e giornalisti francesi, reduci rispettivamente della guerra di secessione del Biafra e di un’emergenza umanitaria in Bangladesh, che hanno deciso di denunciare ciò che stava accadendo in quei posti e di creare un’organizzazione medica d’urgenza più libera nelle parole e nelle azioni. Attualmente MSF ha progetti attivi in più di 72 paesi nel mondo. È cresciuta molto ed è diventata un’ONG internazionale, anche grazie ai suoi principi: Neutralità, Indipendenza e Imparzialità. L’indipendenza economica è fondamentale perché MSF possa intervenire immediatamente in caso di crisi umanitarie o catastrofi naturali come terremoti, tsunami ecc; esiste un emergency pool dedicato, che è in grado di attivarsi in 24h sia dal punto di vista logistico che di aiuto umanitario. L’imparzialità ci porta a non schierarci, se non dalla parte di chi ha bisogno. La neutralità ci permette di curare chiunque, senza distinzioni di credo religioso, fazione, sesso, orientamento politico ecc. Spesso pazienti nemici si ritrovano in letti vicini, all’interno dei nostri ospedali, e di questa possibilità tutti sono consapevoli. Anche lo staff locale sa che non può fare preferenze. La neutralità fa sì che, in caso di conflitti, la presenza di MSF sia accettata da entrambe le parti; se le nostre cure mediche avessero un target la missione sarebbe ancor più pericolosa. Vogliamo essere Testimoni, sempre e dovunque, di chi non ha voce e delle ingiustizie che vediamo e sentiamo nei contesti in cui operiamo. Il nostro motto è SENZA FRONTIERE.
Quali sono stati i tuoi compiti e le tue responsabilità durante le tre missioni che ti hanno portata prima in Sud Sudan, poi a Lesbo ed infine in Afghanistan?
In Sud Sudan ho svolto più il compito di ostetrica di sala parto e supervisor di ostetriche e mediatori locali. Lo staff conosceva benissimo i protocolli e la pratica, ma era poco o per nulla istruito perciò ho organizzato dei training di formazione in base alle esigenze e alle carenze che il team manifestava. Mi sono occupata persino di problemi logistici, progettando ad esempio una copertura che facesse ombra su tutto il campo per evitare che le altissime temperature pomeridiane facessero venire la febbre ai bambini ricoverati. La logistica di MSF è fantastica per uno scout! A Lesbo ho visto e ascoltato atrocità imperdonabili. Ho lavorato nella clinica di MSF nel campo di rifugiati di Moria, che ospitava più di 22.000 persone, cercando di prestare servizio sanitario e di supporto psicologico alle donne e alle vittime di violenza sessuale, che erano moltissime in quel campo. In Afghanistan invece sono stata coach delle supervisors; lì l’ospedale è enorme ed MSF ha reclutato in 10 anni più di 60 ostetriche afghane. Tutte diplomate, laureate, molto competenti. Di fatti il mio aiuto è stato più di tipo manageriale (gestivo il team, i turni, la farmacia). Come ostetrica non avevo nulla da insegnare alle professioniste afghane, erano fantastiche e potevano vantare 60 parti al giorno, 1.500 al mese (prima del COVID addirittura 2.000). A dispetto di ogni stereotipo, sotto al burqa ci sono donne che hanno voglia di vivere e sogni, vere combattenti, piene di desideri e amor proprio.
Qual è il Perché che ti ha spinta a rischiare, a cambiare ed abbracciare la TUA MISSIONE? C'è una provocazione che vuoi lanciarci?
Non voglio restare indifferente alla sofferenza degli altri. La società ci ha cresciuti nella convinzione che basti avere la propria casa, la propria famiglia, un lavoro, uno stipendio, per essere felici e far festa. Abbiamo anche perso il vero senso del far festa, del Natale, ad esempio. Che senso ha oggi il presepe? Maria e Giuseppe erano dei profughi in cerca di un alloggio, e allora quanto più servirebbe e significherebbe accogliere due profughi? Noi non lo facciamo. Che senso ha quindi fare il presepe se poi non lo mettiamo in pratica? Se la storia si ripete, ma noi non facciamo nulla per cambiarla? Non voglio dire che tutti debbano necessariamente ospitare qualcuno, ma essere concretamente attivi. Ognuno nel proprio piccolo. E non solo attraverso il denaro, né solo attraverso il profugo, potrebbe anche essere il vicino di casa. Ma attraverso atti concreti di umanità.
Quanto concretamente, realisticamente, credi si possa parlare di fare e farsi rete?
MSF è fatta non solo di operatori umanitari, ma anche di volontari, comuni cittadini che spendono il loro tempo libero nel supportare l’organizzazione. Con i gruppi locali dei volontari è possibile creare collaborazioni e fare rete in qualche modo. Non per forza bisogna andare in missione, partire per l’Africa o l’Afghanistan. Qua c’è tantissimo bisogno. Dietro casa nostra. L’importante è agire per ciò in cui si crede e non avere paura. Se vuoi fare del bene devi essere pronto a tutto. Ecco davvero l’ESTOTE PARATI. Devi essere pronto a cambiare, ad adattarti, ad imparare, persino all’ingratitudine. Il servizio non prevede gratificazione, per questo il mio servizio va oltre il lavoro, oltre il singolo contratto per la missione in cui esercito la mia professione.
La cosa più bella del fare rete è la possibilità di unire le forze per trovare soluzioni ed essere realmente d’aiuto, anche nell’immediato, grazie ad un semplice messaggio, una chiamata, una conoscenza o un lontano contatto. Se questo meccanismo fosse elevato all’ennesima potenza sarebbe meraviglioso.
Francesca Ricupati