Giuseppe Savagnone
Dir. Ufficio per la Pastorale della Cultura, Arcidiocesi di Palermo
Il long-Covid – lo strascico di postumi della malattia, perduranti anche dopo la guarigione clinica - è un fenomeno che i medici ormai purtroppo conoscono bene, perché le persone coinvolte sono moltissime. Perdita del gusto per i sapori o dell’odorato, sfinimento che impedisce di riprendere assiduamente le proprie precedenti occupazioni, problemi di respirazione, disturbi cariaci… Il Covid, anche quando se ne va, lascia le tracce del suo passaggio e non sappiamo ancora quanto esse dureranno in coloro che ne sono segnati.
Qualcosa di analogo la pandemia sta determinando a livello collettivo. Ormai nel nostro Paese, grazie alla vaccinazione e, probabilmente, al green pass (quello che sta accadendo in altre nazioni, che non hanno adottato questa ultima misura di precauzione contro i contagi, dovrebbe far riflettere i nostri accaniti no-pass), si sta delineando, se non una fase di piena guarigione, almeno di convalescenza, dopo i mesi passati in cui il virus aveva imperversato. Si sono riaperte le scuole, ma anche i ristoranti, i cinema, i teatri e perfino le discoteche. La vita può riprendere, anche se ancora sono necessarie alcune precauzioni.
Ma, anche a livello sociale, la speranza di poter tornare al passato, come se nulla fosse stato, è un’illusione. Anche la società sperimenta l’angoscia del long-Covid. Specialmente i giovani, che sono stati i più esposti ai “danni collaterali” connessi alle misure sanitarie di contenimento della pandemia.
Per tutti il lockdown è stato penoso. Anche gli adulti hanno risentito di una situazione di innaturale isolamento, ai limiti della reclusione. Per tutti sono state pesanti le misure che hanno costretto al lavoro da casa, lontano dalle sedi materiali dove si incontravano i colleghi e dove era possibile, perciò, coniugare l’impegno professionale con dei normali rapporti umani.
I più giovani, però, hanno sofferto in modo particolare. Si sia trattato di bambini, di ragazzi, di adolescenti, o di universitari e giovani lavoratori, tutti, in modi e a livelli diversi, vivevano un momento della loro esistenza in cui è fisiologica l’esigenza di apertura a nuove esperienze e nuove relazioni. Costretti dentro le mura delle loro case - o comunque tagliati fuori dalle occasioni di socialità e di svago normali alla loro età – essi hanno visto frustrate queste normalissime aspirazioni. Invece di essere immersi nel mondo esterno, hanno dovuto osservarlo, per mesi, attraverso gli schermi dei loro computer e dei loro smartphone.
Emblematica l’esperienza della didattica a distanza. Giustamente è stato detto che essa non va demonizzata e che, dal punto di vista strettamente didattico, ha perfino presentato alcuni aspetti vantaggiosi rispetto a quella in presenza. Pur con questa riserva, va detto però che il bilancio è stato decisamente negativo. E non solo per l’apprendimento – come hanno messo in luce i risultati delle prove Invalsi - , ma soprattutto perché la dad ha penalizzato una dimensione essenziale del processo educativo, che è quello relazionale.
Sia la scuola che l’università non sono solo luoghi dove i singoli vengono ad attingere conoscenze (insegnamento – da in-signare, imprimere qualcosa nell’altro, nella sua mente), ma comunità educanti (da e-ducere, far uscire, condurre fuori, metafora del parto e della nascita), dove si scopre l’importanza del dialogo, della cooperazione, dell’arricchimento reciproco, per diventare se stessi (per nascere, appunto).
Tutto ciò è stato drasticamente mortificato da un lavoro scolastico i n cui ogni partecipante assisteva alle lezioni stando davanti allo schermo del proprio computer, in un sostanziale isolamento. Perché comunicare non vuol dire solo parlare e ascoltare: sono i corpi, i gesti, le espressioni, i protagonisti di un vero incontro umano. E questo è venuto meno per tutto lo svolgersi delle lezioni a distanza.
E poi sono mancate le riunioni delle comitive di amici, le festicciole tra ragazzi, la palestra, la movida, le stesse discoteche. Su alcune di queste occasioni di comunità gravava già da tempo il rischio di ridursi a riti in cui in fondo il singolo si ritrovava da solo. Da molto prima del Covid, la nostra società educa i giovani a un individualismo possessivo e attivistico che mortifica la capacità di avere un rapporto con gli altri e, in definitiva, con se stessi, riducendo la dimensione comunitaria a un mero arcipelago di solitudini.
L’esperienza del Covid potenzialmente avrebbe potuto favorire l’attitudine alla riflessione personale e quindi a rapporti più profondi. Forse in alcuni casi ciò sarà pure accaduto. Ma l’impressione è che, nella grande maggioranza dei casi, abbia solo determinato una aggravarsi della crisi comunicativa, di cui non siamo in grado di prevedere la gravità e la durata (come non solo siamo per il post-Covid a livello di salute personale).
Resta la speranza che questa sospensione possa fare riscoprire ai nostri giovani, al di là delle abitudini e delle mode di massa, il valore insostituibile dei rapporti personali, quelli in cui – come dice Emmanule Lévinas - ci troviamo a vedere, come per la prima volta, il viso dell’altro. e forse, rispecchiato in quello, anche il proprio. La ferita del post-Covid si trasformerebbe, allora, in una grazia.