di Luigi Pasotti
Una goccia nel mare. È la prima cosa che mi viene in mente, lasciando i campi dei profughi siriani in Libano, uscendo da quello di Tel Abbas, dove ho dormito insieme ai volontari di Operazione Colomba. Proprio così, si torna in Italia, accompagnando in Sicilia due famiglie che finalmente, dopo tanti anni di vita stentata e sospesa, trovano un posto dove riprendere a vivere, a costruire, a progettare il futuro. All'aeroporto di Beirut, ecco altre famiglie, destinate all'accoglienza in altre regioni italiane.
Un sollievo immenso per loro, la fine di un incubo. Ma il mio pensiero non può che andare alle altre persone incontrate, rimaste nei campi, per le quali l'incubo non è finito, che sopravvivono in un paese dove non possono circolare, non possono lavorare, non possono progettare.
Più che un mare, è un oceano, quello delle persone fuggite dalla guerra, dalla violenza, dalla povertà, ma rimaste a metà strada, senza una meta da poter raggiungere. In Libano i profughi sono soprattutto siriani, oltre un milione, fuggiti dalla guerra fin dal suo scoppio nel 2011, dopo aver perso le case distrutte dalle bombe, il lavoro, parenti ed amici. Il Libano è il paese al mondo con il più alto numero di profughi in rapporto alla popolazione, in proporzione è come se in Italia ne avessimo 10 milioni. Le famiglie del campo di Tel Abbas vengono in prevalenza dalla zona di Homs: un luogo dove ancora non è possibile pensare di tornare a vivere. La guerra non è finita, finirà mai, un giorno?
Così, per una persona che può partire con noi, a cui stiamo riconoscendo il diritto a esistere e vivere, ne restano cento, mille, che restano nel limbo dei campi profughi. Sono rimaste lì, a farsi ogni giorno la stessa domanda: è meglio resistere, cristallizzare l'esistenza nell'attesa di una soluzione che potrebbe non arrivare mai, oppure è meglio tentare la roulette dei barconi, puntare tutto ciò che resta al tavolo dei trafficanti di esseri umani?
La domanda resta sospesa: per chi parte con noi, l'esperienza dei Corridoi Umanitari assorbe grandi energie, fin dal viaggio verso la nuova meta, che fa dimenticare il campo profughi come se fosse un mondo lontano nel tempo. Adesso l'attenzione va alle trafile per poter salire su un aereo, per la prima volta nella vita: lunghe attese ai controlli in aeroporto, documenti che vengono guardati e riguardati dai poliziotti di frontiera: saranno autentici?
Le domande, le consultazioni tra un ufficio di frontiera e l'altro, quasi come se all'improvviso un cavillo potesse fare crollare tutto, prima di passare al controllo aeroportuale successivo. E all'arrivo in Italia, la situazione non è tanto diversa: lunghe attese per i tamponi, per l'identificazione, per le interviste per la richiesta di asilo. Poi c'è l'arrivo alla destinazione finale: è la parte più calda, più emozionante del viaggio: le persone che si incontrano all'aeroporto di arrivo, sono quelle che ti aspettano, che si prenderanno cura di te, del tuo inserimento, che da mesi pensano a te pur senza averti mai conosciuto.
Per i gruppi che si occupano dell'accoglienza, per le famiglia accolte, comincia il grande percorso dell'integrazione: si comincia con poco, cercando di capirsi con i gesti, con un formidabile Google Translate, iniziando dall'essenziale: sistemarsi sotto il tetto che è stato preparato, mangiare qualcosa, dormire per la prima volta, dopo tanti anni, in una terra straniera, sì, in cui però non si è più "irregolari", dove lo stigma della clandestinità non ti perseguita più.
È solo l'inizio, perché ci sono tanti passi da fare nei primi giorni, nelle prime settimane: la presa in carico da parte della questura locale, l'iscrizione all'anagrafe sanitaria, i contatti con gli istituti scolastici, le vaccinazioni. Accogliere richiede davvero tanta cura, tanta presenza, vicinanza, per risolvere i problemi che l'ambientamento comporta. Accogliere non è un'idea astratta, o una scelta ideologica, non è nemmeno lo slancio di un momento: accogliere è accompagnare per una lunga strada, è essere presenti e pronti a servire per tutto il tempo che serve a far acquisire autonomia.
Ciò che si sta realizzando in Sicilia, a Modica e a Santa Venerina, ha davvero del miracoloso, perché questa capacità di accoglienza è davvero potente, perché una volta superati i timori e le paure, chi si è messo insieme per accogliere è riuscito a trovare soluzioni, a contagiare altri con la voglia di impegnarsi, a suscitare interesse e partecipazione da parte delle comunità di arrivo.
Siamo solo all'inizio del cammino: questa goccia nell'oceano che sono i Corridoi Umanitari non è affatto solo una goccia: è grande ed è simbolo di una sfida vinta: sono i famosi "ponti", contro i muri invalicabili che impediscono, anche a chi ha diritto di asilo, di arrivare legalmente in Europa.
Proprio perché stiamo conoscendo la grandezza di una sola goccia, possiamo capire quanto sono grandi il mare, l'oceano, il bisogno enorme, che moltitudini di persone hanno, di pace, di libertà, di futuro. Perché è insopportabile che il mondo sia così ingiusto.
La presenza delle due famiglie siriane fra noi non solo ci fa gustare la bellezza di avere un ponte che unisce culture e storie così diverse, ma apre anche una finestra su quel grande oceano che sono le situazioni di guerra e di ingiustizia che affliggono così tanti popoli. Basta mettere piede un attimo fuori dal continente europeo, oppure ascoltare le storie che questi profughi ci possono raccontare, e ci rendiamo conto di vivere in una "comfort zone" dove non abbiamo percezione delle difficoltà che interessano la maggior parte degli abitanti del pianeta.
L'accoglienza diventa allora la possibilità di fare luce su quelle che Papa Francesco, nell'enciclica "Fratelli tutti", chiama "Le ombre di un mondo chiuso", che provocano un’inconsapevole indifferenza, per aprire una finestra sul mondo che sollecita a prendersi cura della casa comune.
Si tratta di una grande opportunità, in cui trovano un punto d'incontro l'ideale della fratellanza internazionale scout e le sollecitazioni di Papa Francesco a vivere la fraternità con tutti come unica possibilità di salvezza per l'umanità.
I Corridoi Umanitari
Sono uno strumento per l'ingresso regolare in Europa di richiedenti asilo, reso possibile da un Protocollo di Intesa tra il Governo italiano, la Comunità di Sant'Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, la Tavola Valdese e la CEI-Caritas.
Il meccanismo prevede che le organizzazioni che operano tra i rifugiati in diversi contesti di crisi possano identificare le situazioni di maggiore necessità e proporre per queste persone, in genere intere famiglie, l'ingresso legale sul territorio italiano con visto umanitario e successiva presentazione della domanda di asilo. Le organizzazioni si occupano inoltre di accompagnare e sostenere economicamente l'integrazione di queste famiglie senza oneri per il governo. Dal 2016 sono state accolte in Italia con qiesta modalità circa 4300 profughi, provenienti in prevalenza da Siria, Eritrea, Afghanistan, Somalia, Sud Sudan, Iraq e Yemen
L'accoglienza in Sicilia
La proposta di avviare in Sicilia progetti di accoglienza con i corridoi umanitari è nata da Michela Lovato, volontaria di Operazione Colomba, Corpo Nonviolento di Pace della Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII. Michela ha vissuto nel campo profughi di Tel Abbas in Libano e si è poi occupata dei campi profughi sull'Isola di Lesbo, in Grecia. Dalle sollecitazioni di Michela sono nati due gruppi di accoglienza: quello di Santa Venerina è costituito da: Comunità Parrocchiali di Santa Venerina, Azione Cattolica, Caritas diocesana di Acireale e Ufficio Pastorale Migrantes, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII e AGESCI Sicilia. Quello di Modica è costituito da AGESCI Modica 1, I Ricostruttori, Associazione Piccoli Fratelli, Comunità intercongregazionale missionaria, Rete Radié Resch con la collaborazione di MASCI, Misericordia e Comunità Papa Giovanni XXIII.
Con l'arrivo il 29 novembre 2021 di due famiglie di profughi siriani, ciascuna formata dai due genitori e da quattro figli, è iniziata l'esperienza di accoglienza, che prevede di creare le condizioni, tramite l'accompagnamento e l'inserimento scolastico e lavorativo, per raggiungere l'autonomia in un periodo che può andare da 1 a 2 anni.